sabato 30 giugno 2018

Schemi Ribelli


SCHEMI RIBELLI






di Francesca Amidei

Il pathos, la capacità di suscitare un’intensa emozione, è il termometro che indica il livello di passionalità, concitazione, sofferenza in cui ci imbattiamo in un match. Più la colonnina di mercurio sale maggiore è il bisogno della nostra mente di attingere a schemi tattici precostituiti e vincenti. Limitare il pensiero in quelle fasi di gioco decisive proprie del tennis in cui la delicatezza del punto mette a rischio la lucidità di scelta inficiando l’esecuzione finale.

Creare dei file di gioco da selezionare per essere sicuri di fare la cosa giusta al momento giusto al fine di limitare la responsabilità del giocatore in caso di esito negativo. Delle ancore di salvezza calcificate nella memoria, ripetute in allenamento fino allo sfinimento e caratterizzate da un basso consumo energetico visto lo stress psicofisico a cui siamo sottoposti in quei frangenti di gioco.

Un problem solving studiato a tavolino per fronteggiare palle break o palle game durante un match, che conferisce sicurezza all'atleta con l’unico pericolo di limitarne il raggio di azione. Si rischia di soffocare quella voglia interna, incontrollabile, creativa di uscire dagli schemi che i più esperti hanno confezionato ad hoc per noi. Non si tratta di ribellione o improvvisazione  ma, semplicemente, di sentire dentro una giocata diversa che vista la situazione di punteggio può risultare anticonvenzionale e farti apparire presuntuoso agli occhi di chi quegli schemi li venera.

D’altro canto viviamo in una società schedulata che scandisce lo scorrere del tempo attraverso degli appuntamenti fissati a priori nelle nostre vite, come se in una partita a Monopoli dovessimo scegliere tra obblighi e doveri al posto delle inaspettate carte imprevisti e probabilità. La decisione finale si riduce al binomio sicurezza o scoperta. Scegliere tra una combinazione di colpi che rasenta la perfezione esecutiva con alte percentuali di riuscita ma bassa espressione di se, oppure, un’azione di gioco improvvisata di rara genialità ma con ben più alto rischio di insuccesso.



Ogni match meriterebbe di essere pensato allo stesso modo di un pittore davanti a una tela ancora candida. Quanto meno, questo è il tennis che piacerebbe a me.“



(John McEnroe)



Questo pensiero, di uno dei giocatori più estrosi nella storia del nostro sport, può far paura. Il tennis come espressione di una visione della vita che non è più bianca o nera, tipica dell’età di transito tra l’essere un ragazzo e diventare un uomo, ma che accoglie e accetta le molteplici sfumature di grigio. Ampliare il contenitore delle scelte tattiche sul campo aprendoci alle esperienze che la vita ci propone, pronti a diversificare tra svariati interessi per saziare la propria voglia di curiosità, astraendosi dal diffuso concetto di specializzarsi in un unico format di gioco.

Schemi ribelli per tornare bambini, come quando a tre anni ripetiamo “perché?” a raffica per comprendere quello strano mondo che ci circonda costringendo gli adulti a rispondere a domande per loro scontate. Per evadere dal piattume moderno e diventare la pecora psichedelica del tennis.

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