di Francesca Amidei
Arrivi al circolo, fai l' iscrizione, vai nello
spogliatoio, poggi la borsa sulla panchina, allacci le scarpe, ti scaldi,
scegli pari al sorteggio, inizi la
partita...
Accendi il computer, crei una nuova cartella, apri word,
decidi il titolo, imposti il carattere, carichi la foto, inizi a scrivere...
Possiamo ricreare ogni volta la nostra zona di comfort
attraverso gesti standardizzati che ci evocano sicurezza e controllo ma, per
quanto ci sforziamo, dopo i puntini niente sarà mai uguale perché saremo noi ad
essere diversi. Le nostre emozioni saranno sempre imprevedibili come gli
acquazzoni estivi, eppure ci illudiamo di aver sconfitto la paura di vincere e
di aver acquistato un' eterna freddezza sui punti decisivi dimenticandoci che
il nostro passato non rientra di diritto nel nostro presente.
Sembra paradossale ma a
distanza di mesi ciò che frena istintivamente il nostro braccio nel colpire la
palla o la nostra mano nel battere i tasti del computer è proprio il colore
bianco del net difficile da superare, delle righe sempre troppo vicine o della
schermata che dobbiamo riempire con la nostra scrittura, la quale è la
traduzione di intimi sentimenti. Le paure ciclicamente ritornano, possiamo
dargli nomi diversi ma la loro sostanza non cambia.
La sensazione al
termine della prima partita di torneo è che siamo stati traditi da noi stessi
ma in realtà il problema è che ci siamo dati per scontati pensando di scendere
in campo e ritrovare, come per magia, lo stato di flow dei tempi passati.
Ciò sarà possibile solo
se saremo disposti a rimetterci veramente in gioco perché Re-Play non significa
ripetere automaticamente dei gesti ma rigiocare una nuova partita, riempire una
nuova pagina bianca.