lunedì 22 maggio 2017

I Against Myself

I AGAINST MYSELF



di Francesca Amidei

Il cielo è celeste, limpido senza una nuvola. Gli uccellini cantano felici, gli alberi con le loro chiome verdi pastello sono immobili non più molestati dal vento dei giorni scorsi e il polline bianco svolazza libero nell'aria con la stessa grazia dei fiocchi di neve che cadono d'inverno. Il sole scalda ma non brucia, ci regala i primi volti arrossati e gli inconfondibili segni di un'abbronzatura multicolore divenuta negli anni un segno indelebile di noi tennisti. Le condizioni perfette per allenarsi o per giocare un match ma il bello del tennis è che non si può mai dare nulla per scontato neanche in una giornata così...

"Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C'è sempre e solo l'io là fuori, sul campo, da incontrare, da combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall'altro lato della rete, lui non è il nemico, è più il partner per la danza. Lui è il pretesto o l'occasione per incontrare l'io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l'io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco, fai breccia nei tuoi limiti, trascendi, migliora, vinci. Ecco la ragione per cui il tennis è l'impresa essenzialmente tragica del migliorare e crescere." 

- David Foster Wallace -

Una sensazione di pace circonda tre piccoli campi in terra rossa incastonati tra i palazzi dove abbiamo la possibilità di conoscere in profondità, a livello intracellulare la persona con cui dovremo condividere tutta la vita - noi stessi. Una terapia a cielo aperto dove si è pazienti e psicologi al tempo stesso, in un'alternarsi di ruoli con il partner di turno che con colpi vincenti o errori gratuiti ci mostra le debolezze e la forza del nostro io.

In uno sport come il tennis nel giro di ventiquattro ore passiamo da uno stato di flow dove dominiamo l'avversario a una sensazione di impotenza in cui siamo noi ad essere dominati alla ricerca di un futile equilibrio che è in antitesi con l'essenza stessa del match - della vita. Fino a quando siamo in grado di farci sorprendere, di emozionarci vale la pena scendere in campo e combattere perché al di là della vittoria o della sconfitta resta intatta la voglia di competere con i propri limiti, di crescere, di migliorare. Tenere accesa la fiamma che abbiamo dentro, il bisogno innato di sognare, di capire fino a dove possiamo spingerci con il rischio alle volte di bruciarsi ma soffocarla significa al contrario non provare più gioia né dolore e così ogni punto diventa uguale all'altro in una routine grigia come la cenere.


Allora tocca a noi scegliere se giocare sempre al limite oscillando tra paradiso e inferno in un turbine perpetuo di emozioni che renderà ogni partita - e ogni giornata - unica e mai banale o ristagnare in purgatorio, nella monotonia del servizio sempre in kick e del dritto solo in top, reprimendo l'innato bisogno di libertà che si concretizza nel giocare un semplice drop shot.

...Il cielo è sempre celeste, gli uccelli continuano a cantare, gli alberi a rimanere immobili ma la sensazione di pace, se abbiamo fatto scendere in campo l'io contro noi stessi, il giorno che diremo basta con il tennis tornerà. O forse no, ci abbiamo rinunciato preferendo nell'immediato una calma apparente frutto di scelte scontate - dove la ragione ha trionfato sul cuore.