I AGAINST MYSELF
di Francesca
Amidei
Il cielo è celeste, limpido senza una nuvola. Gli uccellini
cantano felici, gli alberi con le loro chiome verdi pastello sono immobili non
più molestati dal vento dei giorni scorsi e il polline bianco svolazza libero nell'aria
con la stessa grazia dei fiocchi di neve che cadono d'inverno. Il sole scalda
ma non brucia, ci regala i primi volti arrossati e gli inconfondibili segni di
un'abbronzatura multicolore divenuta negli anni un segno indelebile di noi
tennisti. Le condizioni perfette per allenarsi o per giocare un match ma il
bello del tennis è che non si può mai dare nulla per scontato neanche in una
giornata così...
"Il vero avversario, la frontiera che include, è il
giocatore stesso. C'è sempre e solo l'io là fuori, sul campo, da incontrare, da
combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall'altro lato della
rete, lui non è il nemico, è più il partner per la danza. Lui è il pretesto o
l'occasione per incontrare l'io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici
della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti
per trascendere l'io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco,
fai breccia nei tuoi limiti, trascendi, migliora, vinci. Ecco la ragione per
cui il tennis è l'impresa essenzialmente tragica del migliorare e
crescere."
- David Foster Wallace -
Una sensazione di pace circonda tre piccoli campi in terra rossa
incastonati tra i palazzi dove abbiamo la possibilità di conoscere in
profondità, a livello intracellulare la persona con cui dovremo condividere
tutta la vita - noi stessi. Una terapia a cielo aperto dove si è pazienti e
psicologi al tempo stesso, in un'alternarsi di ruoli con il partner di turno
che con colpi vincenti o errori gratuiti ci mostra le debolezze e la forza del
nostro io.
In uno sport come il tennis nel giro di ventiquattro ore
passiamo da uno stato di flow dove dominiamo l'avversario a una sensazione di
impotenza in cui siamo noi ad essere dominati alla ricerca di un futile
equilibrio che è in antitesi con l'essenza stessa del match - della vita. Fino
a quando siamo in grado di farci sorprendere, di emozionarci vale la pena
scendere in campo e combattere perché al di là della vittoria o della sconfitta
resta intatta la voglia di competere con i propri limiti, di crescere, di
migliorare. Tenere accesa la fiamma che abbiamo dentro, il bisogno innato di
sognare, di capire fino a dove possiamo spingerci con il rischio alle volte di
bruciarsi ma soffocarla significa al contrario non provare più gioia né dolore
e così ogni punto diventa uguale all'altro in una routine grigia come la
cenere.
Allora tocca a noi scegliere se giocare sempre al limite
oscillando tra paradiso e inferno in un turbine perpetuo di emozioni che
renderà ogni partita - e ogni giornata - unica e mai banale o ristagnare in
purgatorio, nella monotonia del servizio sempre in kick e del dritto solo in
top, reprimendo l'innato bisogno di libertà che si concretizza nel giocare un
semplice drop shot.
...Il cielo è sempre celeste, gli uccelli continuano a cantare,
gli alberi a rimanere immobili ma la sensazione di pace, se abbiamo fatto
scendere in campo l'io contro noi stessi, il giorno che diremo basta con il
tennis tornerà. O forse no, ci abbiamo rinunciato preferendo nell'immediato una
calma apparente frutto di scelte scontate - dove la ragione ha trionfato sul
cuore.