di Francesca
Amidei
All'inizio di ogni match c'è un favorito e uno sfidante. Il
ranking, dato dalla sommatoria delle vittorie ottenute in un ampio lasso di
tempo, ci racconta il valore di un giocatore. Questo complesso sistema di
calcolo (degno di menti ardite in stile Bing Bang Theory) esclude una
fondamentale variabile; il tennis, così come la vita, è uno sport di
situazione.
Trovare soluzioni a una realtà in perenne mutamento che fatica
ad assestarsi sotto la pioggia di dritti, rovesci e servizi che i due
contendenti scagliano a velocità proibitive per l'occhio umano. Con l'ipotesi
non assurda che, per diversi minuti quantificabili in tempo tennistico in
dodici game, che tradotto significa aver perso il primo set 7/5, i tuoi colpi
non trovano la via del campo togliendo credibilità all'appellativo di
"uomo da battere" frutto di vittorie passate.
"Ho faticato davvero moltissimo oggi per ottenere la
diciasettesima vittoria dell'anno. Sono stato spesso in difficoltà, ma quando
si ha fiducia ed esperienza, non c'è motivo di farsi prendere dal panico. Il
mio avversario ha giocato meglio e in diverse occasioni non mi sono entrati i
colpi. Insomma è stata una partita molto equilibrata, entrambi avremmo potuto
vincere. Se devo dire la verità, avrei meritato di perdere io."
(Roger Federer - Indian Wells 2018)
La partita odierna non tiene conto del numero di trofei che uno ha alzato al cielo nel fotoromanzo della propria vita, conta solo il qui e ora. Le molteplici bandiere rosse crociate che sventolano sugli spalti non sono sufficienti quando il ragazzo che hai di fronte, poco più che ventenne, sta lì per scrivere le righe più significative della sua storia come quelle che ti rivelano il colpevole in un libro giallo.
Eppure una soluzione alla bassa percentuale di prime e al numero
in doppia cifra degli unforced, esiste. Si chiama UMILTÀ ovvero, la virtù per la
quale l'uomo riconosce i propri limiti rifuggendo da ogni forma d'orgoglio. In
termini tennistici scalzare "il bel gioco" e mettere in circolo
la voglia di vincere, quella vera. Che ci toglie il respiro, che ci fa
gocciolare fino alla disidratazione, che ci fa gridare con quel brivido che
percuote le nostre membra, ignari, se sia adrenalina o sudore freddo investito
dal vento.
In una parola "FAME". Non quella che ti priva di
energie e offusca il cervello nota come fame umana ma la sua parente più
raffinata, la fame di vincere. Una prorompente forza interna che ci fa
dimenticare dove siamo arrivati, una sorta di ritorno al passato sul campetto
in periferia per sentire nelle vene quella leggerezza, quella passione, quella
grinta che appartengono alla fanciullezza. Con il sole a picco sulla testa,
senza conoscere la nostra destinazione, ma con l'unico desiderio custodito nel
cuore pulsante di essere stati gli ultimi a mandare la pallina al di là di
quella rete oscura.
Allora solo se recuperiamo un break nel secondo set a un passo
dalla sconfitta. Solo se ci aggiudichiamo il parziale 6/4 prendendo a schiaffi
la paura con fiducia ed esperienza, siamo degni di godere di quel rispetto
incondizionato che la nostra classifica ci attribuisce.
Rispetto ottenuto grazie all'umiltà dei numeri primi.